11 Febbraio 2022

Opzioni e patto leonino ex art. 2265 c.c.

Il divieto di c.d. patto leonino di cui all’art. 2265 c.c. sanziona con nullità il patto con cui uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite.

La disposizione si pone come limite all’autonomia privata (anche statutaria) ed è volta a sanzionare l’esclusione assoluta e sostanziale dai rischi della perdita e dal diritto agli utili per alcuni soci rispetto ad altri, non trovando, invece, applicazione in ipotesi di mero squilibrio tra diritti patrimoniali ed amministrativi né in caso di ripartizione dei rischi e degli utili dell’impresa in misura difforme rispetto alla quota di partecipazione sociale. Più in generale, il divieto deve essere letto in senso sostanziale e non meramente formale, operando pertanto anche quando le condizioni di partecipazione agli utili o alle perdite siano di realizzo impossibile e determinino nella concretezza un’effettiva esclusione totale da detta partecipazione agli utili o alle perdite (Cass. n. 8927/1994).

La nullità della pattuizione – che normalmente non si estende all’intero contratto – deriva dalla sua contrarietà alla causa sociale; infatti, poiché il divieto attiene alle condizioni essenziali del tipo “contratto di società”, esso trova applicazione rispetto a tutti i tipi societari, sebbene sia dettato in materia di società di persone.

Quanto alla ratio della norma, essa, secondo autorevole dottrina, assume significati diversi a seconda che il divieto sia riferito agli utili o alle perdite: rispetto agli utili, va ravvisata nel contrasto con l’essenza stessa del contratto societario; in riferimento alle perdite, invece, il divieto sottende ragioni di ordine morale e politico o, secondo altri, è volto a «tutelare il socio da comportamenti usurari di un altro socio» (Corte appello Milano, 13.02.2020).

Il divieto di patto leonino può assumere rilievo in relazione alla previsione di opzioni put (e call) all’interno di patti parasociali.

In materia, è intervenuto di recente il Tribunale di Milano con sentenza n. 4628 del 23 luglio 2020, affermando la nullità per frode al divieto di patto leonino dell’opzione di vendita di partecipazione sociale a prezzo predefinito contenuta in un patto parasociale a mezzo della quale il socio beneficiario si assicuri il disinvestimento ad un corrispettivo superiore a tutte le somme sino a quel momento versate alla società mediante la previsione del meccanismo cd. a consuntivo.

Ai fini della decisione dei giudici, è stata decisiva la circostanza per cui l’ammontare dell’apporto finanziario versato dal socio titolare della put al momento dell’ingresso della società fosse fin dall’inizio inferiore rispetto al prezzo a cui avrebbe successivamente potuto esercitare la vendita. Pertanto, l’operazione è stata ritenuta priva di rischio ed è stato ravvisato il totale disinteresse del socio rispetto alla miglior gestione dell’impresa, che costituisce uno dei beni giuridici tutelati dall’art. 2265 c.c.

La decisione reitera la rigorosa posizione dei giudici milanesi già espressa nella sentenza del Tribunale di Milano del 30.12.2011 e confermata in secondo grado con sentenza della Corte di appello di Milano del 19.02.2016.

In particolare, in primo grado veniva dichiarata nulla per contrarietà all’art. 2265 c.c. l’opzione di vendita di azioni ottenuta dal socio con accordo parasociale con la quale il socio concedente si obbligava a pagare all’opzionario, quale prezzo di vendita, una somma comprensiva di quanto originariamente pagato al momento dell’acquisto delle azioni e di ogni successivo versamento effettuato dall’opzionario alla società sino all’esercizio dell’opzione.

La decisione veniva poi confermata in appello, avendo ritenuto i giudici che l’accordo dei soci esterno al contratto societario da cui derivi, in concreto, l’assoluta esclusione dal rischio di impresa sia in violazione del divieto di patto leonino e, pertanto, non meritevole di tutela ex art. 1322 c.c.

La severa interpretazione formulata dai giudici milanesi dell’art. 2265 c.c. in materia di opzioni, pur essendo stata ribadita dagli stessi pochi anni dopo, è stata in realtà avversata dalla Suprema Corte di Cassazione, che, con sentenza n. 17498 del 04.07.2018, ha cassato la decisione di secondo grado sopracitata; infatti, la Suprema Corte, richiamandosi alla sentenza n. 8927/1994 (sopra già citata), ha confermato che vi è violazione del divieto solo quando un socio è «assolutamente e costantemente» escluso dalla partecipazione ad utili e a perdite e, inoltre, ha affermato che tale effetto può verificarsi solo quando il patto abbia rilievo reale (e quindi statutario) rispetto all’ente collettivo. Al contrario, un patto contenuto in un testo estraneo allo statuto (ad es. in un patto parasociale) che non alteri la struttura e la funzione del contratto sociale né modifichi la posizione del socio nella società non avrebbe nessun significato in tal senso, avendo l’unico effetto interno di trasferire il rischio da un socio o ad un altro socio o ad un terzo.

Riconosciuta, dunque, la liceità dell’opzione put, la Suprema Corte ne ha poi affermato la meritevolezza sostenendo che «se lo strumento delle azioni riscattabili può assolvere alla funzione di finanziare la società», allora «l’opzione put può perseguire quella di finanziamento al socio, ma sempre ai fini di incentivazione dell’impresa economica collettiva».

La posizione della Cassazione – peraltro di recente ribadita con ordinanza n. 27227 del 07.10.2021 – è stata accolta con favore da parte della dottrina, la quale, al contrario, ha ritenuto che la decisione della Corte di appello di Milano destasse «evidenti preoccupazioni»[1] per i suoi riflessi pratici e fosse poco in linea con la garanzia costituzionale ex art. 41 Cost.

Nonostante tale pronuncia, la posizione del Tribunale di Milano è rimasta immutata, venendosi così a creare una vera e propria scissione a livello giurisprudenziale; infatti, la posizione rigorista dei giudici milanesi continua a contrapporsi all’atteggiamento di maggiore apertura della Cassazione, la quale, tuttavia, ha sottolineato nella sopracitata ordinanza che la conclusione di patti parasociali contenenti il meccanismo di opzione, sebbene lecita, deve avere il fine pratico «di assecondare iniziative imprenditoriali specifiche, tutelate quali espressioni dell’autonomia negoziale privata ex art.41 Cost. e art. 1322 c.c.».

[1] Banca Borsa Titoli di Credito, fasc.1, 1° febbraio 2021, pag. 1

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