12 Giugno 2024

Licenziamento del whistleblower: ritorsivo o per giusta causa?

La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 12688 del 9 maggio 2024, cassando la sentenza del grado di appello, ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un dipendente che aveva denunciato irregolarità (whistleblower), nonostante la società avesse motivato il licenziamento con alcune inadempienze commesse dal lavoratore durante l’esecuzione delle sue mansioni.

1. La normativa di riferimento

Il Decreto legislativo 24/2023 ha esteso anche a numerose PMI l’obbligo di dotarsi del sistema di segnalazione Whistleblowing. Il decreto, abrogando l’art. 54 bis del d.lgs. 165/2001, ha peraltro uniformato la disciplina delle segnalazioni anonime per i soggetti pubblici e privati.

La sentenza in commento, benché evidentemente basata sulla normativa precedente, è comunque di interesse in quanto le tutele prestate al lavoratore sono state, semmai, estese dalla nuova disciplina portata dal d.lgs. 24/2023.

La protezione offerta dalla nuova disciplina al whistleblower risulta molto ampia prevedendo la nullità delle misure ritorsive adottate nei suoi confronti; tra queste misure rientrano a titolo esemplificativo il licenziamento, la sospensione dal lavoro, la retrocessione, il mutamento di funzioni, la riduzione dello stipendio, ecc. In aggiunta, l’art. 17 del decreto 24/2023, offre un regime probatorio semplificato per il soggetto che lamenta di essere vittima di misure ritorsive: la normativa stabilisce che qualora il soggetto segnalante lamenti di aver subito a causa della segnalazione un atto ritorsivo, l’onere di provare che le azioni ritorsive sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione è a carico del datore di lavoro.

Nel momento in cui si cala il quadro normativo nelle realtà aziendali, stabilire se un provvedimento sfavorevole verso un lavoratore whistleblower sia dovuto alla segnalazione stessa – e quindi essere ritorsivo – o dovuto ad altre motivazioni costituenti giusta causa può risultare piuttosto complesso.

2. I fatti di causa

Un dirigente di una società speciale del Comune di Napoli lamentava di essere stato illegittimamente licenziato a causa delle segnalazioni effettuate all’ANAC, alla Procura della Repubblica e alla Corte dei conti rispetto ad alcuni comportamenti ritenuti illeciti compiuti da alti dirigenti della società. La società, dal canto suo, riteneva che il licenziamento fosse motivato dalle omissioni del whistleblower, relative all’impugnazione di un avviso di accertamento del valore di 4 milioni emesso dall’Agenzia delle entrate nei confronti della società.

Sia il Tribunale in primo grado, sia la Corte di appello avevano ritenuto legittimo il licenziamento poiché, sebbene non spettasse direttamente al whistleblower attivarsi e nominare un legale, il ricorrente sarebbe stato quanto meno tenuto ad esercitare tutti i poteri a lui conferiti per fronteggiare la delicata situazione della società.

La Cassazione, ribaltando le precedenti sentenze, accoglieva il ricorso ritenendo il licenziamento ritorsivo e, pertanto, illegittimo.

3. La decisione della Corte di Cassazione

A seguito di una minuziosa ricostruzione delle funzioni attribuite al lavoratore, la Corte stabiliva che non si riscontrava il potere/dovere per il dirigente di curare il contenzioso fiscale scaturente da un avviso di accertamento del rilevante importo sopra indicato e che, in sostanza, la società aveva sanzionato con la massima pena del licenziamento un difetto di coordinamento con i vertici aziendali e una non precisata omissione di “doverosi atti d’ufficio”.

La Corte riteneva inoltre che nei precedenti gradi i giudici non avessero adeguatamente valutato l’attività di segnalazione del licenziato, le tempistiche con le quali i provvedimenti erano stati adottati – ritenute compatibili con l’intento ritorsivo – e la successiva collaborazione prestata dal lavoratore nell’indagine avviata dalla Procura.

Tutto ciò ricostruito, la Corte riteneva il licenziamento illegittimo applicando i principi elaborati in materia, in base ai quali l’allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento non esonera il datore a fornire una motivazione per la giusta causa del provvedimento e, ove tale prova sia stata apparentemente fornita, spetta al lavoratore dimostrare l’illeceità del motivo unico e determinate; l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento è inoltre subordinato alla verifica che l’intento ritorsivo abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il contratto di lavoro, senza doversi procedere ad una comparazione tra le ragioni causative del provvedimento, ossia quelle dovute alla ritorsione o alla giusta causa (cfr. Cass. 6501/2023 e Cass. 21465/2022).

La Cassazione ha dunque ritenuto che il ricorrente sia stato in grado di provare che l’intento ritorsivo sia stato l’unica esclusiva motivazione alla base del suo licenziamento.

4. Conclusioni

La giurisprudenza continua dunque a proteggere il lavoratore colpito da misure ritorsivi da seguito di una segnalazione whistleblowing, compiendo di volta in volta minuziose e dettagliate attività di analisi delle circostanze di fatto che hanno portato al licenziamento: una non sufficientemente fondata giusta causa non è sufficiente a superare l’attento scrutinio dello corti.  

Per tutte le società è dunque importante dotarsi di un efficace sistema di segnalazione whistleblowing e adottare misure di protezione volte a evitare discriminazioni verso i soggetti segnalanti.

Lo studio è a disposizione per qualsiasi chiarimento

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